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Immagine del redattoreEdoardo Rosati

I malati sono pieni di sapienza quando si sentono capiti

Aggiornamento: 27 mar

Il fatto è piuttosto preoccupante. E a documentarlo è il Journal of the American Medical Association. In buona sostanza, negli ambulatori statunitensi un medico lascia parlare un paziente per 22 secondi in media, prima di togliergli la parola. Quando invece, riferisce un’altra prestigiosa fonte, il British Medical Journal, basterebbero due minuti appena di ascolto genuino e partecipe per consentire all’80% dei malati d’illustrare con serena accuratezza i disturbi che li assillano.


Pare che la medicina nel suo mirabolante viaggio verso l’infinitamente piccolo, teso a sviscerare le cause molecolari delle patologie, si sia allontanata in modo sprovveduto dall’infinitamente grande: il paziente. Il quale, prim’ancora di essere etichettato “malato”, è e resta una persona. Un universo a sé stante, irriducibile a schemi o a classificazioni.

La sua vitalità, la sua unicità non potrà mai essere del tutto imbrigliata e decifrata da un’ipertecnica cartella clinica.


Il mondo dei camici, bianchi, insomma, sembra… aver perso la parola, tanto ─ verrebbe da dire ─ a parlare ci pensano i responsi delle sofisticate analisi genetiche e delle immagini catturate dall’occhio hi-tech delle strumentazioni diagnostiche, no?


Eppure…


Eppure basterebbe ogni tanto ricordarsi di quella sublime disciplina, poetica e rivelatrice, che si chiama etimologia: studia la storia delle parole, indagandone l’origine arcaica e l’evoluzione nel tempo. Spezza un vocabolo come una noce e ne scoperchia un contenuto sapido, capace di comunicarci un segreto. Di regalarci inediti punti di vista e momenti di riflessione stimolanti.

Ebbene, l’etimologia insegna che il termine «parola» ha radici latine, derivando da parabola, che a sua volta proviene dal verbo greco antico parabàllein. Che significa: lanciare, gettare, proiettare una cosa accanto a un’altra. E quel “qualcosa” potrebbe essere, sì… un ponte.


Immaginate, allora, le parole come tanti piccoli ponti che connettono le persone, i concetti, le culture. Ogni volta che parliamo, stiamo in pratica edificando un collegamento significativo tra noi e gli altri, recapitando idee, emozioni, esperienze.

Le parole hanno il potere di tessere legami profondi (o di fratturare rapporti), di ispirare azioni positive (o di infliggere dolore). Proprio come un architetto progetta con premura estrema un ponte perché resista alle forze del tempo e della natura, così bisogna scegliere le nostre parole con cura sopraffina, consci del loro impatto sul mondo che ci circonda.


Le parole sanno essere ponti di comprensione ed empatia. Di trasformazione e unione. E a maggior ragione quando il destinatario, dei pensieri parlati, è una persona malata. Fragile. Spaurita. Smarrita.


Ecco. Riconquistare la forza tracimante della narrazione nella pratica clinica quotidiana, sempre incastonando, come una gemma preziosa, al centro di ogni discorso l’originalità assoluta di ciascun essere umano. Questa è la nuova mission che ai dottori viene oggi reclamata a gran voce. Ed è questo il cuore profondo del messaggio che attraversa un libro illuminante: Io sono salute - Quando la letteratura incontra la medicina (Aboca Edizioni), firmato da Nicola Gardini (classe 1965), vulcanico scrittore e pittore, e docente di Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford.


Gardini fotografa con potente sintesi il quadro generale quando mi dice:

«Il malato non è la sua malattia. E una certa patologia non sarà mai la stessa in due persone, perché ogni paziente è un malato diverso. L’unicità del malato è l’unicità della persona. Si cura non una malattia; si cura una persona. Il linguaggio del buon medico deve poggiare su queste semplici verità. “Come stai oggi?”. “Che cosa desideri?”. Bastano queste due domande ad aprire tutta una nuova linguistica».


Gli chiedo: per far sì che, agli occhi del curante, il malato sia prima di tutto una persona, piena e autentica (anziché soltanto un caso clinico), quali sono le cinque parole “magiche” che un camice bianco dovrebbe sempre tener presente nella propria attività? E le cinque che, invece, dovrebbe decidersi a cassare dal suo dizionario quotidiano?

«Chiarezza, semplicità, ascolto, fiducia, relazione. Queste possono ispirare felicemente il lavoro del medico, così come la condotta di ciascuno di noi nella vita di tutti i giorni. Il medico fa ─ o dovrebbe fare ─ nella forma più alta quello che ogni bravo cittadino è chiamato a compiere: aiutare gli altri a vivere meglio, qualunque sia la loro condizione. Il lavoro del medico è duro, psicologicamente ed emotivamente faticoso, e avviene spesso in condizioni sfavorevoli e opprimenti. È comprensibile che, col tempo, il medico si senta sempre più stanco e meno disponibile. Il medico deve stare bene, proteggersi dall’eccessiva fatica, essere in salute lui per primo. Solo così riuscirà a svolgere con efficienza la sua professione. Queste cinque parole aiuteranno lui anzitutto. Le cinque voci da cancellare? Indifferenza, cinismo, burocrazia, spersonalizzazione, conformismo».


Già: spersonalizzazione. La persona malata è assai più di un insieme di sintomi. Non può essere ridotta a un semplice numero di stanza all'interno dell'ospedale. È una marea unica di flutti emotivi e relazionali, di soggettività irrequiete. La persona va ben oltre la sua storia di malattia. È un’interezza che sfugge a ogni tentativo di categorizzazione. Ecco perché il racconto è lo strumento principe che consente ai pazienti di esprimere il proprio vissuto personale in maniera compiuta e genuina.

Ogni disagio fisico, sensazione o preoccupazione può essere esternato attraverso la narrazione, una risorsa inestimabile che sa fornire al medico informazioni di valore capaci di agevolare la diagnosi accurata e un trattamento efficace.

«Sì, è bello che i malati abbiano la libertà di esprimersi e di raccontarsi», commenta Gardini. «Delle loro vite si sa così poco. E ai medici occorre insegnare l’arte dell’ascolto. Questa è fatta di due abilità: porre le giuste domande e ottenere le risposte necessarie in tempi ragionevolmente brevi. Senza una formazione giusta i medici saranno sopraffatti o, per non esserlo, diventeranno funzionari irraggiungibili».


Gardini centra un dilemma non indifferente: la preparazione dei camici bianchi in fatto di… empatia. Potrà mai essere insegnata un giorno nelle facoltà di Medicina e Chirurgia? O il povero paziente dovrà rassegnarsi a subire in eterno la solita… riffa, a sperare, cioè, di capitare nelle mani di quel certo medico cortese ed espansivo? In soldoni: la solare capacità di interloquire con il malato è qualcosa che si può apprendere? Oppure è una qualità innata (della serie: ce l’hai o non ce l’hai)?

«Alcune persone sono più empatiche e comunicative di altre, questo è sicuro», risponde lo scrittore. «E se diventano medici, saranno dottori maggiormente empatici e comunicativi di altri colleghi. Sono convinto, però, che tutti gli studenti di medicina possano e debbano ricevere una formazione retorica e psicologica, una competenza che può permettere di stabilire contatti umani con i pazienti attraverso il linguaggio. Occorre studio: è necessario, insomma, nutrire il vocabolario. Avere una comprensione profonda delle persone. Alimentare la curiosità per gli altri attraverso la lettura dei grandi libri».


Vero. Verissimo. Gardini ha acquisito una superiore consapevolezza della malattia attraverso la prospettiva linguistica e poetica, immerso nelle opere di autori classici come Tucidide, Lucrezio e Virgilio. Da opere come il Decameron ha appreso che la letteratura può costituire un cammino verso il benessere e la guarigione. Ed esplorando le biografie di Baudelaire e Nietzsche ha ampliato ulteriormente la personale visione sulla condizione umana alle prese con la realtà sfaccettata della patologia. E dunque si capisce bene per quale ragione Siddhartha Mukherjee, l’oncologo Premio Pulitzer autore del capolavoro L’imperatore del male - Una biografia del cancro, ha giustamente affermato che «Medicina e letteratura non sono così lontane come si crede», sottolineando che entrambe convergono nella capacità sconfinata delle parole di veicolare conoscenza e immedesimazione.


Chiedo: raccomandazioni specifiche per i camici bianchi e per i pazienti che desiderano migliorare la qualità della “parola” nei propri dialoghi?

«Il medico incontra persone che si trovano in un momento molto importante delle loro vite, forse il più rilevante. È un privilegio. E i privilegi devono rendere responsabili. Un malato va interpretato. Per questo il medico avrà bisogno di immagini, di metafore, di frasi. Non solo di moduli e di terminologia tecnica. Consiglio di leggere romanzi e poesie, e anche di tenere un diario. Ai pazienti dico di arrivare preparati all’incontro con il loro curante. Non so se tutti i malati avranno la forza di farsi ispirare dalle buone letture. Tutti, però, possono impegnarsi a dare con le parole una forma alla confusione in cui la malattia li ha spinti. Occorrono lucidità e semplicità. E il sostegno dei familiari e degli amici può risultare davvero determinante».


E, per finire, la domanda di rito: quali insegnamenti vorrebbe che i lettori conservassero dopo aver letto il suo libro?

«Il messaggio al quale tengo di più è questo: anche un malato può avere una salute. La salute è coscienza di sé, e volontà di autorealizzazione», precisa Nicola Gardini. «Può coincidere questa volontà anche con il desiderio di non vivere più, quando la malattia è incurabile. La salute è la libertà di decidere per sé fino alla fine. Diamo fiducia ai malati. Sono pieni di sapienza, quando si sentono capiti. E poi dobbiamo togliere la malattia dalla tradizionale contrapposizione con la salute: ecco l’atto più importante da compiere, su cui il mio libro insiste. Nessuno ha salute una volta per tutte. La salute è un progetto che continua a rinnovarsi. I malati avranno un’altra salute. E scopriranno di potere ancora molto, se non perdono l’amore per la vita. La malattia non è il buio della notte infinita: è soltanto l’altra metà della luna. Perché la stella è ancora tutta intera».



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